E se alla fine dalla pensione a quote, oppure dalla tanto attesa quota 41 per tutti si tornasse a parlare di pensioni con tagli lineari? Infatti tutte le misure di cui oggi si parla anche per ipotetiche riforme, hanno una cosa comune. Servono montanti contributivi elevatissimi. Come se i lavoratori intermittenti, precari, le casalinghe, gli stagionali o semplicemente chi ha difficoltà a trovare lavori duraturi non siano meritevoli di considerazione. Ecco che forse sarebbe meglio parare verso misure differenti, che partendo da una carriera “normale”, riescano a concedere pensionamenti anticipati più facilmente. Anche perché lasciando il pallino ai lavoratori, come la flessibilità prevede, chi esce prima verrebbe penalizzato.
Cosa ci rimette il lavoratore ad andare in pensione prima
In linea di massima il sistema contributivo è basato su due punti fissi. Il calcolo della pensione basato sul montante dei contributi con coefficienti di trasformazione e l’ammontare dei contributi versati. In sostanza significa che più contributi si versano e più si piglia di pensione. E poi che più in avanti con l’età si va in pensione più è favorevole il calcolo della prestazione. Infatti più tardi si esce più alti sono i coefficienti che trasformano il montante dei contributi in pensioni. Già con queste penalizzazioni insite nel sistema, il lavoratore potrebbe essere spinto a restare al lavoro anziché scegliere di uscire in pensione con un assegno insufficiente per vivere.
Il taglio lineare per anno di anticipo, cos’è?
Una vecchia proposta prevista nel DDL 857 di Cesare Damiano prevedeva una uscita tra i 62 ed i 63 anni di età per i lavoratori che raggiungevano almeno i 20 anni di versamenti assicurativi previdenziali. Ma accettando un taglio di assegno tra il 2% ed il 3% per ogni anno di anticipo rispetto ai 67 anni di età. In pratica il lavoratore, a sua libera scelta poteva scegliere se e quando lasciare il lavoro. Un anno di anticipo con taglio del 2/3%. Due anni di anticipo taglio del 4/6% e così via. Si chiama flessibilità per questo. E non c’è sistema previdenziale che non abbia flessibilità se le regole di calcolo della pensione sono contributive. Nulla a che vedere con le quote di cui si parla adesso. Anche fissando a 35 anni la soglia minima di una nuova ipotetica quota 100, per poter lasciare il lavoro servirebbero sempre 65 anni. Riducendo la flessibilità a soli due o tre anni, cioè dai 65 ai 67. Poco cambierebbe se si introducesse una misura pura, con quota 100 senza limiti anagrafici o contributivi. A 60 anni di età servirebbero 40 anni di contributi.
Due alternative per la riforma delle pensioni ma con 20 anni di contributi
Quindi, fissando per esempio a 62 anni l’età di uscita, con 20 anni di contributi un lavoratore finirebbe con il subire tre diverse penalizzazioni. In primo luogo il calcolo di assegno penalizzato dai coefficienti. Poi, lo stop al versamento dei contributi da 62 a 67 anni e adesso anche il fantomatico taglio lineare di assegno. Non cambierebbe molto se la via alternativa al taglio lineare resta il ricalcolo contributivo della prestazione. Infatti si finirebbe con il perdere la parte della pensione vantaggiosa per gli anni di contributi versati nel sistema retributivo.