“Chi non partecipa alla spesa pubblica, non può usufruire dei servizi pubblici”. È questo il cuore della proposta, a tratti provocatoria, lanciata da un lettore sul tema sempre caldo del lavoro in nero e dell’evasione fiscale. Un’idea che solleva interrogativi etici, giuridici e sociali, ma che ha un fondamento chiaro: i diritti devono camminare di pari passo con i doveri.
E se per combattere il sommerso si togliesse l’accesso automatico a medico di base e sanità gratuita a chi evade?
Un salto nel passato: quando la sanità era legata al lavoro
Per quanto oggi possa sembrare impensabile, in Italia non è sempre stato così. Fino a qualche decennio fa, l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica era strettamente legato alla posizione lavorativa e contributiva. Per capire quanto sia radicale, ma non del tutto nuova la proposta del lettore, dobbiamo tornare indietro nel tempo. Fino agli anni Settanta, il diritto alla salute non era garantito universalmente, bensì vincolato alla posizione lavorativa e contributiva del cittadino.
In quegli anni, la sanità pubblica era gestita da enti mutualistici, chiamati “casse mutue”, che fornivano assistenza sanitaria solo a chi era iscritto perché lavorava o versava contributi. Ogni categoria professionale aveva il proprio ente e solo gli iscritti, quindi i lavoratori regolari, potevano godere dell’assistenza medica gratuita. Chi non lavorava, o non era coperto da una cassa, doveva pagare di tasca propria visite, ricoveri e farmaci.
Il medico di base? Non era garantito a tutti. Ogni assistito aveva diritto al proprio medico convenzionato solo in quanto affiliato a una mutua. I disoccupati di lungo corso, i lavoratori in nero e chi viveva ai margini del sistema rischiavano di restare completamente esclusi dalle cure.
Tutto cambia con la legge 833 del 1978, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Con questa riforma, lo Stato abbandona il modello contributivo e adotta un’impostazione ispirata ai sistemi nordici. Da quel momento, la salute diventa un diritto garantito a tutti, indipendentemente dal reddito, dall’occupazione o dalla cittadinanza.
Un progresso civile enorme, ma anche una rottura con il principio di contributività. Da allora, anche chi non ha mai versato tasse o contributi può accedere gratuitamente a prestazioni mediche, interventi ospedalieri e farmaci essenziali. Un diritto sacrosanto, certo, ma che ha creato nel tempo nuove tensioni sociali, specialmente in un Paese dove il lavoro nero è ancora fortemente diffuso.
Oggi il diritto alla salute è garantito a tutti, indipendentemente dalla posizione lavorativa. Un progresso, certo, ma che ha aperto la porta a distorsioni evidenti.
Chi non paga, usufruisce comunque: è giusto?
Oggi, con il peso della spesa pubblica che grava su una platea sempre più ristretta di contribuenti, l’idea di collegare alcuni servizi pubblici al contributo effettivo del cittadino torna al centro del dibattito. Non per negare diritti, ma per richiamare tutti, nessuno escluso, al senso di responsabilità fiscale.
Una riforma così drastica è improbabile nel breve periodo, ma la discussione è aperta. E forse, proprio da queste provocazioni, potrebbe nascere un nuovo equilibrio tra giustizia sociale e sostenibilità del sistema. Secondo il lettore, la situazione attuale è profondamente ingiusta: chi lavora in nero, evade le tasse e non versa contributi, ma allo stesso tempo beneficia gratuitamente dei medesimi servizi di chi paga regolarmente ogni mese.
La misura potrebbe rappresentare una fortissima leva dissuasiva contro il lavoro nero, che ancora oggi coinvolge oltre 3 milioni di persone in Italia, secondo i dati ISTAT.
Un’arma anti-evasione che farebbe riflettere (e dichiarare)
Naturalmente, una proposta del genere non sarebbe priva di conseguenze e polemiche. In primis, andrebbe valutata alla luce dell’articolo 32 della Costituzione, che riconosce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo”. Ma anche i diritti devono, forse, tornare a dialogare con i doveri: chi gode dei servizi pubblici, deve anche contribuire a sostenerli.
Oggi, tra bonus, servizi e prestazioni, l’Italia spende miliardi ogni anno per assistere anche chi non partecipa alla spesa collettiva. La domanda che la proposta del lettore solleva è scomoda ma necessaria: fino a che punto è sostenibile e giusto?