Se chiediamo a chi ha tanti anni di contributi già versati ma a cui mancano ancora due o tre anni per arrivare alla pensione anticipata ordinaria con 42,10 anni di contributi cosa vorrebbe dal sistema, la risposta è senza dubbio una sola. E parliamo della quota 41 per tutti.
Se invece la stessa domanda la facciamo a chi ha una carriera più corta, tra i 33 ed i 35 anni di contributi, la risposta potrebbe essere una maggiore flessibilità anagrafica, nel senso che non si può dover arrivare per forza a 67 anni per andare in pensione.
Eppure, l’ultimo rapporto dell’INPS sottolineando in 64,2 anni di età quella media di uscita dal mondo del lavoro in Italia, dimostra come già oggi la flessibilità nel sistema ci sia. Eppure molti lavoratori chiedono misure di pensionamento anticipato, magari guardando al passato, alla quota 96 per esempio. Collegandola però ad alcune misure di oggi e facendo una sorta di mix in modo tale da rendere una misura del passato in linea con i tempi moderni.
Riforma delle pensioni e la strana opzione quota 96 per uomini e donne
Perché se l’INPS dice che in Italia si esce in media a 64 anni e 2 mesi di età i lavoratori chiedono ancora flessibilità maggiore? Il discorso è uno solo. Nel nostro sistema non mancano le misure di flessibilità pensionistica. Anzi, forse ce ne sono troppe. Ma sono tutte misure che riguardano piccole platee di lavoratori, e che lasciano senza alcuna possibilità alternativa rispetto ai 67 anni tanti altri. E sono questi coloro che si lamentano. Infatti è vero che con 35 anni di versamenti ci sarebbero discrete possibilità di pensionamento.
Per esempio ci sarebbe lo scivolo usuranti, oppure opzione donna, o ancora l’Ape sociale. Nel primo caso bisogna svolgere una delle attività di lavoro usurante previsto, come possono essere i palombari, i minatori o i lavoratori che smaltiscono e trattano l’amianto. O ancora, gli autisti dei mezzi pubblici, gli operai delle fabbriche che lavorano nella linea a catena o i lavoratori notturni. Senza queste attività nulla da fare.
Per opzione donna e l’Ape sociale è lo stesso. Bisogna essere invalidi, caregiver, oppure disoccupati e addetti ai lavori gravosi (solo 15 tipologie di ulteriori attività lavorative) per l’Ape sociale o licenziate e alle prese con aziende in crisi (solo grandi aziende di interesse nazionale con tavoli di crisi avviati al Ministero) per opzione donna.
Tutte le contraddizioni del sistema pensionistico italiano
Chi riesce ad andare in pensione con una di queste misure è fortunato. E soprattutto, finisce con l’abbassare la media dell’età anagrafica di pensionamento. Come dicevamo però, c’è chi non riesce a rientrare in nessuna di queste categorie.
C’è il barista, ci sono i cuochi, i camerieri, ci sono i corrieri, i lavoratori dei frantoi, gli impiegati, i falegnami, gli idraulici, e così via dicendo. Sono lavoratori e contribuenti anche questi.
E se non sono invalidi o se non hanno parenti invalidi, le possibilità di pensionamento si assottigliano e diventano praticamente solo due o tre. Parliamo di pensione di vecchiaia, solo a 67 anni. Oppure di pensione anticipata, ma solo a fronte di ben 42,10 anni di versamenti. Oppure della quota 103, ma sempre con 41 anni di contributi e 62 anni di età e per giunta, con una penalizzazione sulla pensione.
Perché un ritorno alla quota 96 è auspicabile
Ecco che un ritorno alla quota 96 è una soluzione di flessibilità che molti auspicano. Magari anche con penalizzazioni di assegno, facendo diventare la nuova quota 96 una sorta di opzione donna per tutti. Si partirebbe dai 60 anni di età con 35 anni di contributi.
Chi non vuole tagli di assegno per via del ricalcolo contributivo, decide di restare a lavorare fino a raggiungere i 67 anni di età o i 42,10 di contributi. Chi invece può accettare di perdere qualcosa, allora ecco che dovrebbe essere libero di farlo una volta completata la quota 96 a partire dai 60 anni di età con almeno 35 anni di contributi. usando naturalmente le frazioni di anno sia per l’età che per i contributi.